Sono due i motivi fondamentali per non leggere questo articolo: uno, è troppo lungo; due, spiegare un lavoro di Mike Nelson è impossibile.
Detto questo, l’urgenza di provare a raccontare questa spiazzante installazione ha prevalso sul buon senso di lasciarla vivere nel silenzio del ricordo.
Se una delle caratteristiche esclusive dell’arte contemporanea è quella di giocare con i concetti di spazio e tempo – attraverso la creazione, la traslazione, la sovrapposizione o la ricostruzione di realtà spesso diverse da quelle proiettate artificialmente dal nostro modo di pensare – l’installazione di Mike Nelson alla Biennale di Venezia merita una lunga e profonda riflessione, non solo estetica ma anche concettuale. L’artista scelto per rappresentare la Gran Bretagna prende come punto di partenza un’opera chiave della sua carriera, Magazin: Büyük Valide Han, presentata nel 2003 alla Biennale di Istanbul, e la ricostruisce sulla base della memoria con tutte le alterazioni che uno spostamento geografico così drastico può creare.
Il lavoro originario riproduceva un caravanserraglio del 17 ° secolo, situato nella zona mercantile di Istanbul, composto su più livelli da camere oscure dove si trovavano immagini fotografiche in bianco e nero dei cortili e delle strutture della cupola esterna dello stesso edificio, oltre alla zona immediatamente circostante.
Ricostruendo attraverso il ricordo visivo le sezioni principali di quell’opera nonché tutta la camera oscura, l’artista attua una decontestualizzazione fulminea di uno spazio che ora si va a inserire all’interno di un elegante palazzo di fine 800 veneziano (sede del padiglione britannico) che si allinea a tutti gli altri padiglioni nei giardini della Biennale. Così, un qualunque spettatore può lasciare le atmosfere leggiere dello spazio esterno soleggiato e verde in riva ai canali, per entrare attraverso le colonne della maestosa facciata dell’edificio in uno spazio chiuso e di difficile accesso. Qui, le poche finestre e i soffitti spesso troppo bassi spingono a passare velocemente da una stanza all’altra senza la possibilità di soffermarsi sugli innumerevoli particolari che si riveleranno poi fitti di allusioni letterarie e politiche.
Tra il degrado di stanze forse abbandonate forse no, nella vista dello spettatore rimane la traccia di un lampadario e dei suoi cristalli sporchi appoggiati a un tavolo, un giaciglio improvvisato in un angolo dell’edificio, la camera oscura; ma è ancora così forte lo scarto tra questa realtà-non realtà e la nostra dimensione di provenienza che siamo costretti a lasciare le stanze con urgenza, senza possibilità di decifrare con la lente gli elementi più sottili.
A questo punto, l’uscita in uno spazio aperto, ottenuto con la rimozione di parte del tetto del padiglione stesso, diventa quasi un sollievo perché ci riporta a rivedere un pezzo del nostro mondo; quando però ci accorgiamo che i muri esterni-interni dell’opera rimandano ad un altro luogo a noi ignoto (un cortile di un quartiere arabo) ritorniamo in quello stato di smarrimento originario e singolare.
Ritornare all’interno dell’opera per uscirne ripercorrendo a ritroso gli spazi, significherà lentamente prendere coscienza di alcuni particolari, prima ignorati, ed ora testimoni fedeli di come le stanze attraversate siano state vissute, abbandonate e rivissute e riabbandonate ancora. Del passaggio dei suoi abitanti vecchi e nuovi, scorgeremo una traccia non solo materiale negli oggetti antichi o attuali, quotidiani o rari, ma anche nelle atmosfere chiuse dove il respiro delle persone rimane attaccato sulle cupole e sulle porte di legno.
Il non riuscire a collocare in una determinata dimensione spazio-temporale la realtà che attraversiamo (non basta una bandiera turca per darci una sicurezza), ci porterà a vivere il resto dell’opera in uno stato di profonda rielaborazione concettuale dove si staglieranno più nitide le ultime immagini di un tragitto apocalittico: la cucina che prima non avevamo visto e un cesso arabo prima di uscire.
Il disagio di non essere riusciti a sostenere un intreccio dimensionale così forte e compresso, che nasconde forse la nostra incapacità di accettare l’altro nelle sue differenze e similarità, ci farà tornare nei sentieri verdi dei Giardini della Biennale con più di una perplessità.
La verità è che Mike Nelson non riempie solo uno spazio con un altro spazio, o meglio lo fa ma nel suo gesto c’è sempre qualcosa che trascende l’azione artistica in sé, e una operazione apparentemente banale riesce a spiazzarci su tre piani diversi.
Quello geografico-sociologico presentando un’opera che inserisce in uno spazio lussuoso uno spazio povero, uno spazio lontano in un contesto a noi familiare, una cultura diversa e simile a quella della città che oggi la ospita. Del resto Istanbul e Venezia, poste sulla scia di Bisanzio, furono accomunate dall’essere due vive città mercantili in continua influenza tra loro e con le civiltà che le circondavano.
Un tempo appunto, e qui l’artista ci catapulta su un piano di respiro più ampio che è quello temporale, dove le cose nel loro incontro producono elementi di affinità destinati a perdurare, e per questo a creare degli elementi di cortocircuito nella realtà che viviamo oggi. Questi elementi, se richiamati con una particolare tecnica, possono dare vita a una dimensione spaziale-temporale capace di sovrapporsi alla nostra, gettandoci in questo modo, anche solo per un attimo, nel panico di un mondo dove tutte le cose continuano ad esistere accanto ad altre sempre nuove.
Il terzo piano sul quale l’opera dell’artista britannico fa leva, è quello esistenziale, o meglio della nostra esistenza individuale che si materializza nelle esperienze fatte.
Così come l’artista ha ricomposto un pezzo della sua vita in uno spazio-tempo diverso da quello vissuto realmente, distruggendo la coerenza di una vita-opera ordinata verso una logica maturazione, noi siamo spinti a pensare che la nostra vita attuale possa essere la riproposizione decontestualizzata di esperienze già vissute. Come se vivessimo citando e rielaborando i fatti del nostro passato.
“I, impostor” significa la possibilità dell’arte di trascendere le dimensioni sulle quali ci appoggiamo per dare ordine alla nostra vita. Quindi di prendersi gioco di tutte quelle acquisizioni culturali che consentono di isolare e di determinare uno spazio, un tempo, una civiltà rispetto ad un’altra.
Nella civiltà globale solo chi riesce a muoversi senza punti di riferimento precisi può prendere coscienza di un mondo che in verità non si stende soltanto sul piano orizzontale dello spazio geografico, ma anche su quello, verticale o circolare che sia, del tempo, per essere infine rielaborato nel profondo vortice delle nostre esperienze esistenziali.