Quando Bryan Jones venne trovato immobile nel 1969 all’età di 27 anni, con il fegato e il cuore devastati dall’abuso di alcol e droghe, sul fondo della sua piscina ad Hartfield, ancora non si sapeva nulla dell’oscura maledizione che sarebbe piovuta sul mondo del rock. Sta di fatto che già allora qualcosa scosse gli animi dei protagonisti di quell’epoca, ad esempio Jim Morrison dedicò, al chitarrista degli Stones deceduto, dei versi destinati a divenire il simbolo di quella particolarissima sensibilità artistica lacerata da uno strano sentimento di onnipotenza autodistruttiva. “Spero che tu te ne sia andato come un bimbo nel fresco residuo di un sogno” recitava Jim, poco prima di intraprendere la stessa strada in un anonimo albergo di Parigi due anni dopo. Una tragica sorte era toccata a Jimi Hendrix nel 1970, quando una mattina di settembre venne trovato morto, forse soffocato dal suo stesso vomito, in un appartamento a Londra dove si era ritirato per una pausa di riflessione. Lo stesso anno, circa un mese dopo, Janis Joplin fu trovata morta nella stanza di un motel di Hollywood: l’esame autoptico ipotizzò una morte accidentale causata da overdose di eroina.
Nel giro di 3 anni si erano così spente le stelle di quattro musicisti destinati, nel bene o nel male, a diventare icone di una intera epoca e a restare, sospesi come angeli maledetti, indelebili miti nella storia del rock. Tutti scomparsi a 27 anni, tutti collegati da quella “J” maledetta che forse non rappresentava soltanto la drammatica ironia del caso, ma che evocava la fine di qualcosa, forse di un’era, di una generazione, portata all’eccesso e finita per implodere su se stessa.
Oggi si dice non ci siano più miti e la mediocrità della vita contagi la scena musicale come tutte le cose. In questa dimensione di superficialità comunemente accettata, anche le leggende di un tempo finiscono per essere banalizzate. Così il ricordo dei grandi personaggi viene stemperato e svuotato nelle provocazioni stampate sulle t-shirt dei ragazzi di oggi, i quali spesso sono incapaci di comprenderne la sacralità e di conservarne la memoria con rispetto e intelligenza. Poi di tanto in tanto, un segno della sorte, di quella stessa amara assurda sorte, viene a risvegliare le coscienze delle nuove generazioni con un tragico evento. Così successe nel ’94 con il suicidio di Kurt Cobain e più recentemente si è verificato con la morte di Amy Winehouse. Altri due angeli maledetti, che alla giovane età di 27 anni, si sono lasciati morire nell’indifferenza generale e nel caos di un mondo che non sa più interpretare i segni di disagio e la sensibilità fragile dell’animo umano. Speriamo soltanto che la morte di questa nuova “voce disperata” non venga strumentalizzata o peggio rimossa dalla coscienza sociale, né venga meramente inserita nella logica commerciale del mito corrotto del “27 club”; ma che possa, invece, essere interpretato come simbolo di un malessere inerente, non solo il singolo caso, bensì l’intera sensibilità di una generazione che si sta perdendo e ha bisogno di essere salvata.