Forse è ancora presto per tirare le somme di una stagione tennistica internazionale che ancora attende diversi appuntamenti importanti, uno su tutti l’Open degli Stati Uniti.
D’altra parte appare molto difficile, dopo le prime 3 prove del Grande Slam disputate, immaginare un finale capace di riscattare la pessima annata dei colori azzurri nel circuito ATP, e al massimo, si potrebbe pensare di evitare la catastrofe vincendo almeno i play-off di Coppa Davis contro il Cile.
Ad oggi i risultati degli italiani nei tornei individuali sono veramente limitati: i quarti di Fabio Fognini al Rolland Garros, il terzo turno di Simone Bolelli a Wimbledon e la finale della solita Francesca Schiavone sulla terra rossa di Parigi rappresentano uno score decisamente esiguo.
Non saranno poi di certo le vittorie nei tornei challenger di Casablanca e Bergamo, rispettivamente di Potito Starace ed Andreas Seppi, a riscattare le prove esigue maturate nelle competizioni più importanti. Piuttosto un buon risultato è stata la vittoria a Easterbourne (torneo di preparazione a Wimbledon) del nostro tennista altoatesino, ma si tratta pur sempre di episodi isolati che non bastano a cementare la fiducia in una possibile svolta concreta e duratura.
Troppo poco, veramente troppo poco per pensare ad un possibile riscatto, almeno nell’immediato. Se pensiamo che il giocatore italiano meglio piazzato nella classifica ATP (Fognini n.38) ha 1.140, ovvero circa 12.000 punti in meno di Novak Djokovic (primo nel ranking dopo Wimbledon), la depressione cronica delle racchette italiane appare in tutta la sua profondità. Purtroppo i buoni risultati nel campo femminile non servono a salvare la faccia del tennis made in Italy in uno sport dove, tralasciando ogni forma di ipocrisia perbenista, l’attenzione del pubblico è focalizzata sugli uomini.
Al di là di qualsiasi moralismo o pregiudizio maschilista, la realtà è questa e difficilmente si può contestare. Le imprese della Schiavone e i buoni risultati della Pennetta ci fanno sorridere ma non possono riscattare l’immagine di un tennis che nel nostro Paese non riesce da anni a costruire un campione da top ten.
Intanto il dibattito sul motivo per cui in Italia non esce un vero fuoriclasse continua a infervorare critici e appassionati. Tra l’eterno scaricabarile di responsabilità e la ricerca delle cause più disparate, l’attenzione degli addetti ai lavori si è ultimamente soffermata sulle superfici dei campi da gioco.
La questione è che in Italia la maggioranza delle strutture sono composte da campi in terra mentre nel circuito internazionale la maggioranza dei tornei ATP si svolgono su terreni di gioco veloci come il cemento o il sintetico.
Ora, una corposa fazione di specializzati, sostiene sia questa la causa principale per cui in Italia non riesce ad emergere un atleta in grado di competere per i primi posti del ranking mondiale; dall’altra parte alcuni rispondono ironicamente che se fosse solo per questo, i giocatori italiani, così abituati a giocare sulla terra, dovrebbero essere i migliori al mondo perlomeno nei tornei su questa superficie.
Tutti sappiamo che così non è.
Come ai tempi della lotta tra Guelfi e Ghibellini l’Italia del tennis si divide, senza naturalmente portare niente di buono alla crescita sportiva azzurra. Intanto le speranze di vedere un campione risollevare le sorti di questo sport diventano sempre più labili e utopiche; e suonano un po’ come le profezie letterarie di Dante quando annunciava l’arrivo di un “veltro” capace di uccidere la cupidigia e salvare il Paese dalle sue discordie. O, se preferite, come l’agognato “principe” che Machiavelli auspicava ai fini di superare le divisioni interne tra i vari principati e liberare finalmente l’Italia “unita” dal nemico straniero.
Speriamo che il futuro prestigioso del nostro tennis non resti soltanto nell’utopia di un libro, o peggio ancora, dispersa tra le chiacchiere inconcludenti di chi comanda ma non è mai responsabile di niente.