Un bar nel centro di Lahore, Pakistan.
Un uomo con la barba ferma un inquieto americano, gli offre un the e gli racconta la sua storia, in un monologo ininterrotto che dura 270 pagine.
Che cos’hanno in comune questi due uomini? Apparentemente niente, forse tutto, o forse niente davvero. Changez, il Pakistano, (nome che non a caso ricorda il verbo inglese “to change”, cambiare) ha vissuto buona parte della sua vita in America, ha studiato e si è laureato a Princeton, ha lavorato per un’azienda importante, si è innamorato di una ragazza americana. Ma non si è mai sentito “americano”, in compenso si è sentito “newyorkese” fin dal primo minuto passato in quella città.
Tanti sono i confronti che Changez fa tra New York e la sua città natale, molte le somiglianze, altrettante le differenze, raccontate in un vortice di episodi e sensazioni che non lascia spazio per le parole dell’interlocutore americano nè per i pensieri del lettore.
Ma chi è l’interlocutore americano? Non c’è una risposta a questa domanda, la sua identità sfugge continuamente: potrebbe essere un semplice turista? Probabilmente no, ma tutto quello che sappiamo è che di sicuro non si sente a suo agio in compagnia di un pakistano: varie volte Changez deve intervenire per tranquillizzarlo nei confronti del cibo che gli sta offrendo, del cameriere che li guarda, o delle sue stesse parole.
Nonostante non faccia altro che parlare di sé, nemmeno l’identità di Changez risulta chiara: se nella prima parte del romanzo sembra essere un comune studente straniero che si è perfettamente adattato nella sua nuova città, un evento storico cambia notevolmente le carte in tavola: l’attentato delle torri gemelle. Il protagonista non si trova a New York l’11 settembre 2001, ma al suo ritorno si rende conto di quanto tutto sia cambiato: sia nel mondo che lo circonda, visti gli atti razzismo di cui è vittima a causa del suo essere musulmano in un paese terrorizzato dalla sua religione, sia dentro di sè, che sente di aver rischiato di perdere la sua identità culturale e tenta di recuperarla focalizzandosi sui “fondamentali”. Dove lo porterà tutto questo?
Tutti questi quesiti senza risposta emergono dal libro “Il fondamentalista riluttante” di Mohsin Hamid, pubblicato nel 2007, finalista per il premio Man Booker Prize.
Il lungo monologo sviluppa le problematiche del terrorismo, del pregiudizio culturale, della guerra che non fa altro che generare odio da odio e spaventa le persone fino a farle vivere in una sorta di teca di vetro isolandosi da tutto ciò che è diverso. Il lettore si rivede alternativamente nell’americano e nel pakistano, e scopre che per trovare la sua vera identità deve aprire i suoi orizzonti e vincere le paure che il mondo contemporaneo ha infuso in noi. Questa sembra essere l’unica certezza che prende forma mano a mano che ci si avvicina alla fine.
Ma anche questa certezza, come tutte le altre, viene smentita proprio nelle ultime righe: il finale a sorpresa, una morte inaspettata, crea altre domande: chi è morto? Perchè? Era giusto fidarsi del “diverso”? È tutto vero quello che abbiamo letto o era solo una favola? Changez come una moderna Sherazaad de “Le mille e una notte” allontana con il suo racconto, le sue parole, il momento decisivo che probabilmente sa che dovrà inevitabilmente arrivare, dimostrando, forse, che l’unica cosa certa che ci resta in mano dopo questa lunga storia è il potere della letteratura, l’unica che riesce a sconfiggere, o quanto meno allontanare, la morte.
Per chiunque abbia voglia di riflettere su di sé e sul mondo, questo è il libro adatto.