Il primo ad utilizzare il termine “Villaggio globale” è stato Marshall McLuhan nel suo libro “Understanding media: the extensions of man”. Voleva indicare come con l’evoluzione dei mezzi di comunicazione, il mondo sia diventato più piccolo e abbia assunto di conseguenza i comportamenti tipici di un villaggio.
McLuhan è considerato un precursore del suo tempo e un grande interprete del nostro, grazie all’enorme contributo teorico nell’ambito di media, comunicazione e tecnologia e della loro influenza sulla psiche umana, sulle dinamiche sociali, sulle arti, sulla letteratura, sulla formazione, sul lavoro e sull’economia.
Quale tempo migliore del nostro per poter riflettere sullo scenario digitale tracciato da Mc Luhan. La profezia di McLuhan sembra proprio essersi avverata e oggi assistiamo ad una rottura tecnologica paragonabile alla scoperta del telegrafo.
Il digitale ci ha portato ad un enorme aumento della libertà, alla costruzione di elementi comunitari reali. Se il nostro Paese riuscisse a sfruttare le potenzialità della rivoluzione digitale, potrebbe intraprendere un percorso per uscire, magari, anche dalla crisi.
Tuttavia, il problema dello sviluppo e diffusione delle nuove tecnologie non è certo di poco conto. È nota a tutti l’influenza sociale di questi nuovi mezzi di comunicazione, basta guardare ilnumero degli iscritti a Facebook (tanto per citare il più famoso SNS), lievitato negli ultimi anni in maniera impressionante.
Qualcuno ha addirittura parlato di inconscio digitale, che si formerebbe seguendo quattro categorie della persona nascosta: la prima è una persona che non è a conoscenza degli archivi che conservano i suoi dati sensibili, seguita da una persona che è a conoscenza degli archivi su di essa ma a cui non può accedere, una terza persona che è a conoscenza degli archivi e ne ha accesso ma non conosce i codici per decodificare le informazioni su tali archivi (come la scrittura di un medico), l’ultima categoria è una persona che nonostante abbia accesso ai suoi dati sa che ad essi sono state sottratte delle informazioni che la profilano senza conoscerne il motivo.
Secondo tale teoria, tutti abbiamo più digital persona, ogni dispositivo o connessione fa in modo che l’individuo possa creare nuove identità. C’è ancora posto per la coscienza reale dell’uomo, che dovrebbe essere in grado di separate queste identità prevenendo l’azione di aziende, come Apple, che cercano di unificare le varie identità per controllarle? Guardando i comportamenti digitali verrebbe da dire di no.
Le tecnologie dovrebbero forse essere vissute con un foglietto illustrativo a supporto, come il famoso bugiardino dei medicinali, che dica ‘leggere attentamente l’impatto educativo’. Dovremmo forse pensare la persona digitale come una protesi della persona reale? Sicuramente sì, on line non si fa altro che riprodurre, a volte troppo disinibitamente perchè protetti da uno schermo, comportamenti usuali esercitati off line.
Il futuro della comunicazione sarà sempre più “tablet e social”, se non hai facebook non esisti, e tutto ciò è terribile e rivoluzionario al tempo stesso.
Il concetto di libertà è ormai dipendente da quello di interconnessione e di diffusione dell’accesso a Internet, anche se è importante comprendere e ribadire che il web non può sostituirsi all’esperienza concreta, all’esplorazione fisica. Mi piace concludere ricordando una frase dello scrittore Paulo Cohelo: “possiamo avere a disposizione tutti i mezzi di comunicazione del mondo, ma niente, assolutamente niente, sostituisce lo sguardo di un essere umano”.
Dunque, guardiamoci di più, parliamoci di più, litighiamo e sorridiamoci. Magari smetteremo di usare protesi per comunicare.