“Non è degna di un paese civile una legge che accusa di clandestinità i sopravvissuti di una tragedia e che accusa di complicità i soccorritori. Cancelliamo lo scandalo della legge Bossi-Fini”.
Una vignetta tristemente ironica e un messaggio conciso che va dritto al punto sono gli strumenti con cui Repubblica.it ha lanciato, nei giorni scorsi, un appello per chiedere l’abolizione della legge Bossi-Fini, famosa soprattutto per aver introdotto nel 2002 il reato di clandestinità e tanto discussa nelle ultime settimane come conseguenza del naufragio di Lampedusa nel quale hanno perso la vita oltre 300 persone, partite alla ricerca di un posto migliore, ma approdati su un isola di lacrime.
L’appello, corredato da una lettera che porta la firma di Stefano Rodotà, ha raggiunto soltanto nei primi quattro giorni la quota di centomila firme che il direttore del quotidiano, Ezio Mauro, ha già consegnato al Presidente del Consiglio, Enrico Letta per richiedere formalmente l’assunzione di un impegno di responsabilità politica e di sensibilità umana.
Ancora una volta, uno strumento di democrazia dal basso si fa narratore di una cultura italiana diversa da quella rappresentata e incatenata in molte leggi. Una cultura espressa sui volti dei cittadini siciliani, pronti prima di tutto a soccorrere le vittime del mare e nei centomila nomi e cognomi che, seppure tramite un gesto puramente simbolico, reclamano un cambiamento che provenga anche dalle istituzioni italiane, non soltanto da quelle europee.
Tra le firme tanti i nomi noti di personaggi provenienti dall’ambito politico, ma anche culturale e dello spettacolo e altrettanti i nomi di cittadini comuni o aspiranti tali, uomini e donne, giovani soprattutto, a cui è auspicabile che venga prestato ascolto e risposte serie che vadano al di là di ogni polemica politica.
L’appello è ancora aperto sul sito del quotidiano.
Claudia Cannatà