Viviamo in uno stato tecnicamente laico che, però, in diverse forme e misure celebra la domenica come il giorno del Signore – Gesù Cristo, ovviamente.
È così da secoli ed è così tutte le domeniche, ma attenzione: tra una settimana, quando sarà di nuovo domenica, il calendario segnerà l’8 marzo e la passione del Signore dovrà fare i conti con le signore o per meglio dirla con le donne, tutte a prescindere dal loro credo religioso.
Quest’anno, quindi, la seconda domenica di marzo si incrocia con la festa internazionale delle donne, e quel velo riconosciuto o meno di maschilismo che la fa da padrona in tutte le religioni verrà spazzato via per un giorno che, speranza vuole, non rimarrà solo un simbolo di festa giornaliera, ma diventerà un buon esempio di buone pratiche da costruire e applicare nel quotidiano.
Al di là di questa lotta tra sessi e al di là della contrapposizione tra il Signore e le signore, l’8 marzo è dal 1909 la Festa internazionale della donna, più comunemente conosciuta come festa della donna.
In realtà, più che di una vera e propria festa, la giornata dedicata alle donne vorrebbe essere una celebrazione per ricordare sia le conquiste sociali, politiche ed economiche delle donne, sia le discriminazioni e le violenze che ancora purtroppo subiscono in molte parti del mondo.
La celebrazione ebbe luogo per la prima volta negli Stati Uniti, proprio nel 1909 e si diffuse poi anche in alcuni Paesi europei a partire dal 1911. In Italia, le celebrazioni per la festa della donna risalgono, invece, solo al 1922.
8 marzo, un po’ di storia sulla festa della donna
Un po’ di storia, ma solo un po’. Come già anticipato, la festa della donna ha origine negli Stati Uniti, dove esattamente il 23 febbraio del 1909 si tenne la prima giornata ufficiale della donna, che fu in realtà una manifestazione per rivendicare il diritto di voto a tutta la popolazione di sesso femminile. La manifestazione era stata fortemente voluta dal partito socialista americano e, dopo un anno di proteste e scioperi femminili e femministi, il Woman’s Day fu celebrato nuovamente il 27 febbraio dell’anno successivo.
Nel 1911, invece, la festa della donna come giornata di rivendicazione dei diritti femminili sbarca in Europa. Paesi come la Germania, l’Austria, la Svizzera e la Danimarca la celebrano per la prima volta il 19 marzo su scelta del Segretariato internazionale delle donne socialiste. Lentamente si diffuse in molti altri Paesi europei per essere poi, però, interrotta in concomitanza con il primo conflitto mondiale e riprendere nel 1917 a San Pietroburgo, dove, proprio l’8 marzo del 1917, le donne guidarono una grande manifestazione che rivendicava la fine della guerra. La giornata passò alla storia, in realtà, come l’inizio della Rivoluzione russa di febbraio- secondo il calendario giuliano allora in vigore nella nazione russa – e, per questo motivo, la Seconda conferenza internazionale delle donne comuniste, tenutasi a Mosca a una settimana dall’apertura del III congresso dell’Internazionale comunista, fissò all’8 marzo la Giornata internazionale dell’operaia. In Italia la giornata internazionale della donna fu tenuta per la prima volta soltanto nel 1922, per iniziativa del Partito comunista, che la celebrò il 12 marzo, prima domenica successiva all’ormai fatidico 8 marzo.
Questa è la storia. E la fabbrica? Vi domanderete. La tradizione secondo cui la festa della donna è stata istituita per ricordare la morte di centinaia di donne bruciate in un rogo all’interno di una fabbrica di camicie – probabilmente inesistente – è dovuta all’avvento della seconda guerra mondiale e ad altre brutte vicende annesse che hanno comportato una perdita della memoria storica in materia. Nonostante le ricerche effettuate da numerose femministe tra la fine degli anni settanta e la fine degli anni ottanta abbiano smentito puntualmente questa teoria, la stessa continua ad essere quella prevalente e quindi la più diffusa dai media e tra i discorsi politici delle varie fazioni.
L’8 marzo si celebra la festa della donna in quasi tutto il mondo
Comunque sia stato, ciò che è certo è che oggi l’8 marzo si celebra la festa della donna in quasi tutto il mondo e chiaramente anche da noi. Una festa che, come spesso accade per le celebrazioni e le ricorrenze più longeve, si contraddistingue per avere due anime: una è l’anima prettamente consumistica, fatta di feste in senso stretto, mimosa regalata come il cielo regala la pioggia, spogliarelli, auguri e altre varie ed eventuali quantomeno discutibili; l’altra, invece, è l’anima più riflessiva che interpreta la giornata più come una celebrazione che non come una vera e propria festa e la fa propria tutto l’anno.
Potremmo scrivere migliaia di battute su questa questione, ma non ne verremmo mai effettivamente a capo, poiché si tratta di una questione troppo controversa in cui le opinioni sono estremamente personali e da calibrare su ogni persona e su ogni situazione. È un po’ come la questione di San Valentino: è la festa di ogni cretino, eccetto che l’amore dato e ricevuto in quel giorno è almeno pari a quello dato e ricevuto durante gli altri 364 giorni con le naturali incomprensioni e problematiche umane, è chiaro. Così anche per la festa della donna: può avere un senso sfruttare questa ricorrenza per fare letteralmente festa se si è donne indipendenti, realizzate, rispettate, insomma persone con una propria identità tutti i giorni. Non ha alcun senso, invece, o forse ce l’ha ma è negativo, finire in locali animati da finti maschi che si spogliano per far salire la temperatura e scatenare inutile tempeste ormonali, se l’8 marzo è inteso come unica possibilità di libertà e divertimento.
A parte questa breve riflessione sugli spiriti diversi che animano i festeggiamenti, alle porte della festa della donna non si può non considerare che purtroppo la donna è, tutt’oggi che ci vantiamo di vivere in società pari e civili, spesso maltrattata, umiliata, non considerata come essere umano pari agli altri, ma inferiore e per questo un essere umano che è possibile gestire a proprio piacimento. Non si tratta, badiamo bene, di realtà necessariamente lontane. Non si tratta necessariamente di pensare a donne che coprono la loro bellezza indossando veli, burqa e abiti che rendono persone anonime, ma si tratta anche di pensare semplicemente a realtà vissute quotidianamente anche alla porta accanto alla nostra. Donne picchiate, donne costrette in casa a dividersi tra lavori domestici e gestione familiare, donne non libere di essere persone.
Fatti reali e tristi, dunque, che per fortuna qualche volta trovano eccezioni che riaccendono uno spirito di speranza per una società fatta davvero di parità tra i sessi e più semplicemente tra le persone. Eccezioni che, spesso, vengo proprio da quei contesti da cui meno te lo aspetti.
Afghanistan, per esempio. Una terra che non eccelle senza dubbio per libertà e centralità della figura femminile, dove però c’è una squadra di ciclismo che pedala… con il velo. A scovarla è stata la Bbc che l’ha mostrata in un servizio per la strade di Kabul. La squadra di ciclismo femminile vale tutto l’articolo determinativo, perché è effettivamente l’unica in tutta la nazione. Ad allenarla è l’ex campione Abdul Sadiq, l’unico ciclista professionista del paese, che ha dato il via alle danze o alle pedalate in un modo molto banale: insegnando a pedalare a sua figlia di 10 anni, come fanno o dovrebbero fare tutti i papà del mondo, ma non di certo quelli afghani. Si tratta, quindi, di una vera e propria rivoluzione. Forse piccola, ma comunque una rivoluzione che, infatti, ha procurato non pochi guai al suo promotore che, però, si è anche guadagnato poche ma buone sostenitrici. Sadiq allena la sua squadra tre volte a settimana e ha già vinto competizioni a livello macro-regionale, mentre in un Paese in cui, dopo la caduta dei Talebani nel 2001, alle donne è ancora vietato uscire di casa senza la scorta di un uomo, il suo coraggio cresce e insieme al suo cresce anche quello delle ragazze che dicono “Vogliamo correre per provare l’esperienza di essere eroine per un giorno”.
La strada è lunga sia in senso metaforico che reale, ma l’augurio che si può fare a queste donne è che siano eroine per la vita.
Altro posto, altra storia. A Napoli, città spesso protagonista della cronaca dalle tonalità più scure, ci sono, a dire il vero, diverse realtà che esaltano la figura della donna. È il caso, per esempio, delle iniziative portate avanti dall’associazione Pianoterra Onlus che, nata nel 2008, è attiva tutt’oggi al sostegno delle famiglie più bisognose e in particolare delle donne: donne madri ma anche donne e basta che magari non hanno le possibilità di curare la loro femminilità. Un’associazione, quindi, a sostegno delle donne fatta da donne che fornisce servizi che vanno dal make-up a prezzi sociali fino all’istruzione, al sostegno all’allattamento e molto molto altro. Senza contare poi, sempre a Napoli e in una zona come Scampia, l’esperienza della cooperativa sociale La Kumpania che oggi tra le varie iniziative e i vari successi può vantare anche quello del ristorante Chikù. Conoscete lo stereotipo per cui le donne cucinano, ma gli chef sono sempre o quasi sempre uomini? Da Chikù è presto smentito. Il ristorante, infatti, è interamente ed egregiamente gestito da sole donne, donne per giunta che provengono da realtà sociali particolari come quella del già citato Scampia e dalla realtà dei Rom. Chikù non è soltanto un esperimento di femminismo, ma ha anche una marcia in più che è quella della integrazione reciproca. Il ristorante, infatti, è il primo ristorante italo.romanì di Scampia e probabilmente non solo. In un ambiente fatto di cibo, cucina, ma anche di cultura, arte e spettacolo, si incontrano queste due realtà e restituiscono al mondo che ha la fortuna di passare da lì il gusto di Scampia, il gusto delle donne e il gusto del mondo senza confini.
Insomma, queste sono solo due belle esperienze estratte da una moltitudine potenzialmente infinita. Alle porte della festa della donna, quindi, rinunciate magari a tristi e costosi spogliarelli e andate a caccia di situazioni come queste magari scoprite proprio che le donne possono sia affermarsi che divertirsi a prescindere da pantaloni, cinture e pettorali.