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A Venezia, Viaggio in Mesopotamia all’origine della scrittura

PRIMA DELL’ALFABETO Viaggio in Mesopotamia all’origine della scrittura è la mostra in programma dal 20 gennaio al 25 aprile 2017 a Venezia a Palazzo Loredan

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PRIMA DELL’ALFABETO Viaggio in Mesopotamia all’origine della scrittura - Venezia
PRIMA DELL’ALFABETO Viaggio in Mesopotamia all’origine della scrittura - Venezia

PRIMA DELL’ALFABETO Viaggio in Mesopotamia all’origine della scrittura è la mostra in programma dal 20 gennaio 2017 al 25 aprile 2017Venezia – Palazzo Loredan Istituto Veneto di Scienze Lettere ed Arti, Campo Santo Stefano – a cura di Frederick Mario Fales, uno tra i più noti assirologi e studiosi del Vicino Oriente Antico. Sono quasi 200 le opere della Collezione Ligabue – tra cui tavolette e straordinari sigilli risalenti a oltre 5000 anni fa – esposte al pubblico per la prima volta: opere affascinanti che rievocano la grande civiltà dell’Antica  Mesopotamia.

Il visitatore è condotto quasi 6000 anni or sono, nella Terra dei Due Fiumi, in un universo di segni, simboli, incisioni ma anche di immagini e racconti visivi che testimoniano la nascita e la diffusione travolgente della scrittura cuneiforme, rivelando nel contempo l’ambiente sociale, economico e religioso dell’Antica Mesopotamia. L’importanza della scrittura cuneiforme sta in un sempilce dato: basta ricordare che il cuneiforme è durato ben 3500 anni, mentre i segni alfabetici che si usano oggi per scrivere, in fondo, ne hanno “solo” 2500.

Scripta manent ammonivano gli antichi romani a conferma dell’autorevolezza e del valore nel tempo di un testo scritto, Maktub “è scritto”, dicono gli arabi.
La nascita della scrittura, avvenuta verso il 3200 a.C. quasi contemporaneamente in Egitto e in Mesopotamia, segna uno dei capitoli più affascinanti e rivoluzionari della storia della civiltà, fondamentale per le dinamiche di trasmissione del sapere e per la conoscenza dell’antichità.

Culla di civiltà straordinarie, oggi martoriata e saccheggiata dalla guerra e dal terrorismo che hanno reso inaccessibile il suo patrimonio di bellezza e conoscenza, la terra di Sumeri, Accadi, Assiri e Babilonesi viene raccontata e svelata grazie all’esposizione, per la prima volta al pubblico, di quasi 200 preziose opere della Collezione Ligabue. Si tratta soprattutto di tavolette cuneiformi e di numerosi sigilli cilindrici o a stampo, ma anche sculture, placchette, armi, bassorilievi, vasi e intarsi provenienti da quell’antico mondo.

A questi oggetti si affiancano importanti prestiti del Museo archeologico di Venezia e del Museo archeologico di Torino: dal primo, bellissimi frammenti di bassorilievi rinvenuti dallo scopritore della mitica Ninive, Austen Henry Layard, che nell’ultimo periodo della sua vita si era ritirato proprio a Venezia, a Palazzo Cappello Layard (donò i suoi oggetti alla città nel 1875); dal secondo un frammento di bassorilievo assiro fortemente iconico raffigurante il re Sargon II, scoperto nel 1842 da Paul Emile Botta – console di Francia a Mosul – e da lui donato al re Carlo Alberto.

Una collezione di altri tempi, come ama sottolineare F. Mario Fales, quella messa insieme da Giancarlo Ligabue, imprenditore ma anche archeologo, paleontologo e grande esploratore scomparso nel gennaio 2015. Collezione straordinaria non solo per entità, qualità e per l’importanza storica di questi e altri materiali, ma in quanto testimonianza di un collezionismo slow, rispettoso dei luoghi che pure Giancarlo studiava e delle istituzioni, della ricerca e del sapere; un collezionismo appassionato, diretto a preservare la memoria e non a defraudare le culture con altri fini.

La mostra PRIMA DELL’ALFABETO, Viaggio in Mesopotamia all’origine della scrittura è promossa dalla Fondazione Giancarlo Ligabue presieduta da Inti Ligabue e patrocinata dalla Regione del Veneto e dalla Città di Venezia; main sponsor Ligabue SpA e Hausbrandt, con il contributo di DM Informatica, La Giara e Scattolon Renato.

Info sulla mostra PRIMA DELL’ALFABETO, Viaggio in Mesopotamia all’origine della scrittura

Orario mostra
da martedì a domenica 10.00 – 17.00
Chiuso il lunedì

Biglietti
Intero 5 Euro
Ridotto 3 Euro

Ufficio stampa
Villaggio Globale International
Antonella Lacchin
+39 041 5904893 – +39 335 7185874
lacchin@villaggio-globale.it

CUNEIFORME: LA SCRITTURA DIFFUSA PER 3500 ANNI E INDECIFRABILE PER 17 SECOLI, SEGNO DELLA GRANDE CULTURA DELLA MESOPOTAMIA ANTICA

Dai primi pittogrammi del cosiddetto proto-cuneiforme, rinvenuti a Uruk – annotazioni a sostegno di un sistema amministrativo e contabile già strutturato – all’introduzione della fonetizzazione (dai “segni-parola” ai “segni-sillaba”), la scrittura cuneiforme, con le sue evoluzioni, si sviluppò e si diffuse con estrema rapidità anche  in aree lontane: dalla città di Mari sul medio Eufrate a Ebla nella Siria occidentale, a Tell Beydar e Tell Brak nella steppa siro-mesopotamica settentrionale.

Abili scribi verranno formati per redigere documenti grazie a segni ormai classificati e vere e proprie scuole saranno istituite nei diversi centri, per insegnare a nuovi funzionari a leggere e scrivere.
Centinaia di migliaia di tavolette di argilla – la materia prima della terra mesopotamica – hanno dato vita ad autentici archivi e biblioteche, in un mondo che aveva compreso il valore e il potere della scrittura: tavolette con funzioni contabili-amministrative, tavolette giuridiche, storiografiche, religiose e celebrative, o addirittura letterarie, racchiudono le storie, i lavori, i pensieri e i ritratti di uomini e re vissuti tremila anni prima di Cristo; miti e leggende di dei ed eroi.

Il loro ritrovamento e, soprattutto, la comprensione di quegli affascinanti segni ci hanno aperto gli occhi sul passato. Ma non è stata una conquista facile!
Poco prima del 100 d.C. il babilonese – il dialetto accadico più longevo – sparisce definitivamente soppiantato dall’aramaico e dal greco e con esso se ne va la conoscenza del cuneiforme.
Bisognerà attendere diciassette secoli, fino alla metà dell’Ottocento, per riconquistare la coscienza di quanto scritto sulle tavolette della Mesopotamia antica.
Fino ad allora – fino alle decifrazioni di Grotefend (1775 – 1853) e all’impresa di Rawlinson (1810 – 1895), che sospeso a 70 metri dal suolo copiò l’iscrizione trilingue di Dario I sulla parete rocciosa di Bisutun – furono soprattutto la Bibbia, debitrice di tanti racconti e suggestioni dell’antica Mesopotamia, e gli storici greci, latini e bizantini a tramandare in una luce più o meno leggendaria i nomi di luoghi come “il Giardino dell’Eden” o le maestose città di Ninive e Babele e quelli di personaggi come Nabucodonosor II, che distrusse Gerusalemme, o la regina Semiramide.

Le preziose tavolette in mostra raccontano di commerci di legname o di animali (pecore, capre, montoni o buoi), di coltivazioni di datteri e di orzo per la birra, di traffici carovanieri tra Assur e l’Anatolia, di acquisti di terreni e di case con i relativi contratti e le cause giuridiche; celebrano Gudea signore possente, principe di Lagash, promotore di grandi imprese urbanistiche e architettoniche; prescrivono le cure per una partoriente afflitta da coliche, con incluso l’incantesimo da recitare al momento del parto, o testimoniano l’adozione di un bimbo ittita da parte di una coppia o, ancora, le missive tra prefetti di diverse città-stato.

Accanto alle tavolette, placchette e intarsi, in osso, in conchiglia, in oro o in avorio, bassorilievi e piccole figure, raffinati oggetti artistici e d’uso comune, ma soprattutto – straordinari per le figurazioni e le narrazioni, per il pregio artistico delle incisioni realizzate da abili sfragisti (bur-gul) e i diversi  materiali usati – tanti, importanti sigilli.

SIGILLI: UN UNICUM DI INESTIMABILE VALORE STORICO-ARTISTICO

Creati per registrare diritti di proprietà e apposti fin dal periodo Neolitico sulle cerule – sorta di ceralacca a garanzia della chiusura di merci e stoccaggi – i sigilli, con l’avvento della scrittura, vengono apposti sulle tavolette o sulle buste di argilla (utilizzate fino al I millennio) per autenticare il documento, garantendo la proprietà di un individuo, il suo coinvolgimento in una transazione, la legalità della stessa. Come spiegato dall’archeologa Roswitha Del Fabbro nel catalogo della mostra, essi prima indicavano l’amministrazione, come oggi il timbro di un Comune, e col tempo vennero a rappresentare il singolo individuo, riportandone il nome, giungendo magari a presentare l’iscrizione di una preghiera.
Ma il valore intrinseco dei sigilli cilindrici, già sostitutivi di quelli a stampo intorno alla metà del IV millennio, è dato dal fatto che essi erano generalmente realizzati in pietre semipreziose provenienti da luoghi molto lontani: i lapislazzuli – importati dal lontano Badakhshan, nell’odierno Afghanistan nord orientale, celebre per le miniere descritte anche da Marco Polo – l’ematite, la cornalina, il calcedonio; ma anche agata, serpentino, diaspro rosso o verde, avorio, cristallo di rocca. Per questo i sigilli furono spesso riutilizzati, diffondendosi anche come amuleti con valore apotropaico, ornamenti, oggetti votivi: veri status symbol talvolta indossati dai proprietari con una catenina o montati su spilloni.
Nei sigilli cilindrici, in pochi centimetri, accanto alle iscrizioni venivano realizzati motivi iconografici sempre più raffinati, differenziati per periodi e aree geografiche. Già l’idea di adattare un disegno a una superficie curva, in modo da ripeterlo ad libitum, era rivoluzionaria. Sfilate di prigionieri davanti al re, scene di lotta tra eroi e animali, processioni verso il tempio, raffigurazioni di guerra e di vita quotidiana, donne-artigiane accovacciate, grandi banchetti, racconti mitologici: l’evoluzione stilistica, la raffinatezza delle incisioni diventano nel tempo sempre più evidenti.

In epoca accadica gli intagliatori di sigilli prestano attenzione alla resa naturalistica del corpo umano e di quello animale, curano la narrazione, la simmetria, l’equilibrio, la drammatizzazione. Si individuano e si susseguono nel tempo stili e tecniche anche con l’introduzione del trapano e della ruota tagliente, a scapito della manualità. I sigilli rappresentano insomma un unicum artistico, prima delle gemme greche e romane.

IN UNA BIBLIOTECA ANTICA DI VENEZIA, REPERTI E APPARTI MULTIMEDIALI PER UN TUFFO NELLA STORIA DELL’ORIENTE

La glittica per altro – una delle produzioni più caratteristiche delle culture del Vicino Oriente antico – presenta una serie di immagini e raffigurazioni che non troviamo in altre forme artistiche, costituendo anche una fonte d’informazione unica, di stili e costumi.

Esposti negli ambienti particolarmente suggestivi dell’antica biblioteca dell’Istituto Veneto di Scienze Lettere ad Arti – perfetto scenario di questa mostra – il visitatore potrà ammirare sigilli inestimabili per valore storico e artistico, raffiguranti uomini, eroi e animali, ma anche divinità come il dio solare Samash, quello della tempesta Adad, il dio delle acque dolci Ea, oppure Enlil che assegnava la regalità, massima autorità del pantheon mesopotamico, definito dio del cielo e degli inferi e soppiantato con l’affermarsi della dinastia babilonese da Marduk; ma anche la complessa Inanna (in sumerico) Isthar (in semitico), “costantemente a cavallo della barriera tra donna e uomo, adulto e bambino, tra bene e male, tra vergine e prostituta”: dea della fertilità, dell’amore e della guerra ad un tempo.
Quindi scene mitologiche – il mito di Etana, tredicesimo re della prima dinastia di Kish alla ricerca della “pianta della nascita”, trasportato in cielo da un’aquila – o singolari, come la raffigurazione (in un sigillo del periodo protodinastico III, in lapislazzuli) di personaggi seduti che bevono la birra da un giara, con lunghe cannucce.

Attraverso una didattica attenta, apparati multimediali innovativi e interattivi di notevole suggestione e riproduzioni tattili, il pubblico potrà godere della bellezza di questi oggetti e leggere e comprendere le storie ivi narrate, riscoprendo i simboli e i miti di una civiltà sulla quale si è fondata la cultura occidentale e di cui siamo debitori e che pure oggi appare così lontana e inaccessibile.

ALLESTIMENTO E MULTIMEDIALITA’

Nelle sale di un’antica biblioteca settecentesca, i quasi 200 reperti di oltre cinque millenni or sono dialogano con ologrammi, scansioni tridimensionali, riproduzioni di oggetti con stampanti 3D e volumi storici sfogliabili virtualmente.

La scelta di allestire la mostra “Prima dell’alfabeto” nelle sale di una biblioteca settecentesca – quelle prestigiosa di Palazzo Loredan a Venezia – non è stata casuale: si sta esplorando una civiltà che quasi 6000 anni fa aveva compreso l’importanza e il potere della scrittura, quale migliore sede espositiva allora, quale scenografia più adatta di una biblioteca storica, di uno dei tanti ”templi del sapere” destinati a tramandare i testi scritti?
Il progetto espositivo – elaborato da Ubis Three – è stato studiato per dialogare con le antiche librerie che scandiscono gli ambienti e guidato, nella distribuzione delle diverse sezioni in mostra, dall’’impianto dell’edificio.
18 vetrine espositive sono state realizzate per la Fondazione Giancarlo Ligabue dalla Goppion di Milano, azienda leader mondiale nell’allestimento museale, progettate appositamente
per valorizzare i reperti esposti, e un apparato didascalico e multimediale di particolare efficacia è stato studiato per permettere al pubblico di “leggere” gli “archivi” di Sumeri, Assiri, Babilonesi e per cogliere la preziosità di incisioni e rilievi.
Moderne tecnologie si innestano infatti negli ambienti settecenteschi e tra i reperti di millenni or sono. Ad ogni coppia di vetrine è affiancato un totem per informazioni sui pezzi
esposti, ingrandimenti fotografici ad altissima definizione, visualizzazioni tridimensionali.
In particolare, modelli tridimensionali realizzati tramite scansioni 3D permettono di illustrare e percepire dettagli piccolissimi, rendendo gli oggetti esposti visibili e godibili a tutto tondo (una realtà virtuale che sarà fruibile anche online); riproduzioni tramite stampanti 3D – talvolta ingrandite in scala – danno modo ai visitatori di toccare oggetti del tutto simili agli originali; proiezioni olografiche riproducono visivamente modelli digitali tridimensionali ad altissima definizione, offrendo una percezione estremamente realistica di un reperto e, infine, antichi volumi diventano sfogliabili virtualmente.
Il pubblico sarà dunque accolto al piano terra di Palazzo Loredan, dove sono organizzate le aule dedicate alla didattica.

Salito lo scalone, la mostra prende avvio nella grande Sala della polifora, con uno spazio introduttivo ai luoghi dell’esposizione – La Mesopotamia dove e quando – narrati attraverso mappe e suggestioni e con la biglietteria e il bookshop.
Nella seconda sala ecco i “capitoli” Dal disegno al segno e Varietà di testi, lingue e scritture.
I banner approfondiscono gli argomenti e le tematiche relative ai reperti esposti; in quelli laterali con un sistema di proiezione si racconta l’evoluzione nei secoli dei segni: dal pittogramma al cuneiforme.
La terza sala ha come temi Il lavoro dello sfragista, I materiali dello sfragista e dello scriba e I sovrani e le loro gesta: qui verrà anche riproposto anche un estratto di una puntata di Superquark di RAI1 nella quale Alberto Angela da Palazzo Erizzo – sede allora del Centro Studi e Ricerche Ligabue, oggi della “Fondazione Giancarlo Ligabue” – illustra l’apertura di una “busta” in terracotta contenente una tavoletta di quaranta secoli fa: un oggetto
unico e preziosissimo esposto in una piccola teca.
La quarta sala racconta L’uomo e gli dei in Mesopotamia e I sovrani e le loro gesta. La ricca esposizione di reperti trasmette la potenza di quei popoli e allo stesso tempo fa entrare nel mondo quotidiano di millenni or sono.
La quinta sala è dedicata a La decifrazione delle scritture in Mesopotamia; un tavolo ospita oggetti scientifici, antichi tomi sono affiancati a volumi digitali sfogliabili dal visitatore.

 

Frederick Mario Fales
Ordinario Università degli Studi di Udine
Missione PARTEN (Progetto archeologico Terra di Ninive) Kurdistan iracheno
(Università degli Studi di Udine)
IVSLA (Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti)
socio effettivo

Oggi, il Vicino Oriente si è allontanato in maniera impressionante: per la Realpolitik, per i rapporti umani e culturali tra popoli dell’area circum-mediterranea, anche per me personalmente.
Solamente in televisione mi è ormai dato rivedere i cartelli stradali dei luoghi sull’alto Tigri come sull’alto Eufrate dove ho diretto scavi, dove ho preso abitazioni e macchinari in affitto, dove ho discusso giorno per giorno con la gente. Mosul, Jerablus, Kobane … il ricordo evoca luoghi di vivace e gaio mercato, di visite cordiali nelle case, di interminabili trattative – un tè dopo l’altro – per ottenere operai per l’attività archeologica. Ci illudevamo, a quel tempo, che la nostra stressante corsa carrieristica in patria potesse trovare una pausa salutare nella
routine dei 2-3 mesi annuali di lavoro fisico in Mesopotamia, a contatto con genti locali che accettavano con fare pacioso i “diversi” venuti in aereo dall’Occidente, con le loro strumentazioni
sempre nuove e le loro ossessioni circa la tecnica di scavo … Oggi, cerco invano in TV i volti di chi conoscevo tra i profughi che scappano in gruppi familiari a piedi, non riconosco più le loro abitudini nella miriade di smartphone che accompagna le valigie di cartone, non comprendo esattamente come quel mondo, a lungo tenuto in fatalistico sonno da iconici e paternalistici dittatori, sia diventato in breve una Geenna di tutti contro tutti, a colpi di lanciamissili, conversioni di massa e scudi umani. Il Vicino Oriente sembra ormai essersi trasformato in un pianeta remoto, insensato e insondabile, come il Tlön o Orbis Tertius immaginato
da Jorge Luis Borges.
E noi? Banditi dai luoghi di scavo, oggi mete di predatori avidi di lucro, siamo tornati a osservare la Mesopotamia antica dalla sola visuale delle nostre biblioteche, pur se arricchiti nell’opera di interpretarne la storia e la cultura dalle tante impressioni del territorio – vegetazione, vie e distanze, climi – che quei decenni “sul campo” ci lasciarono negli occhi. E fu così, dunque, che mi capitò di ricalcare i basoli delle calli che conducono a Palazzo Erizzo, dove Giancarlo Ligabue mi aveva generosamente aperto, negli anni Ottanta, la sua magnifica collezione di tavolette cuneiformi, consentendomi di farne l’edizione nella forma di un volume riccamente illustrato, con il titolo di Prima dell’alfabeto. Ad attendermi non c’era più Giancarlo, purtroppo, ma suo figlio Inti, altrettanto affettuoso, appassionato e determinato, con un’idea di grande novità e fascino: presentare la raccolta paterna di antichità mesopotamiche in una mostra a Venezia, ma includendovi anche la collezione di sigilli cilindrici, inestimabili per
valore storico e artistico. L’offerta era irresistibile: cedetti, gratissimo, all’istante. Per affrontare la vastità e la complessità dei sigilli, finora inediti, in vista della mostra, scegliemmo di
comune accordo la dottoressa Roswitha Del Fabbro, archeologa udinese/berlinese temprata da scavi in Siria, Turchia e Kurdistan. E decidemmo altresì di intitolare la mostra come l’opera
precedente, Prima dell’alfabeto. Sotto la sapientissima guida del curatore Adriano Favaro, mi fu data la più grande libertà di concepire l’impianto descrittivo del catalogo secondo prospettive
incrociate e innovative, pur senza sacrificare la facilità di comprensione dell’insieme.
Tutto facile, dunque? Non esattamente. L’ormai invecchiato traduttore di tavolette cuneiformi dovette ben presto accorgersi che il mondo dell’editoria archeologica viveva di un nuovo, titanico, fermento grazie allo strumento informatico; che la velocità di realizzazione era un diktat di questo mondo; e che testi e illustrazioni potevano subire cambi, spostamenti e revisioni
plurime verso il risultato più consono a un catalogo quale quello progettato.

Tuttavia, grazie all’indefessa attività di studio, catalogazione e analisi di Roswitha Del Fabbro – che mi ha costantemente affiancato e sostenuto – come all’opera preliminare d’archivio
della dottoressa Marta Dal Martello, ai costanti suggerimenti creativi sul piano redazionale di Adriano Favaro e Federico Dei Rossi per l’aspetto tecnico e grafico, alla preziosa opera di raccordo con la Fondazione della Lucia Berti e, last but not least, alla guida amichevolmente comprensiva e costantemente salda del Presidente della Fondazione dottor Inti Ligabue, il risultato ha, a mio avviso, superato ogni prevedibile aspettativa. Porgo dunque un sincero e affettuoso ringraziamento a tutti; pur se oggi siamo fisicamente lontani dalla Mesopotamia, la Terra tra i Due Fiumi riesce a rivivere nelle pagine che seguono, in primo luogo grazie all’unicità, varietà e bellezza della collezione di antichità della Fondazione Giancarlo Ligabue e in secondo luogo grazie al portentoso lavoro di squadra che ha portato alla realizzazione di questo catalogo.

 

LA RIVOLUZIONE IN UN SEGNO

Inti Ligabue
Presidente Fondazione Giancarlo Ligabue

Nei molti dialoghi che ho avuto per decenni con le opere d’arte della collezione Ligabue, uno pareva rimanere sospeso: quello con tavolette e sigilli che, solo per facile comprensione, chiameremo mesopotamici. I cilindretti di pietra portano – assieme alle figure di persone, animali, divinità, vegetazione – messaggi brevi e apparentemente semplici, un po’ come i twitter che usiamo oggi; mentre le tavolette di argilla continuano a esporre, nei loro labirintici cunei, messaggi ad uomini e dèi.
Ho viaggiato svariate volte, assieme a mio padre Giancarlo, che questa collezione ha raccolto decenni fa, nei percorsi che quei segni indicavano.
Ogni volta orientandomi prima, e perdendomi poi; cercando di comprendere l’idea contenuta in quei messaggi così originalmente trasmessi: c’erano simboli pittografici, numeri, motivi di divinità celesti o degli inferi di quell’antichissimo mondo. Non avevo mai compreso appieno il vero ed immenso valore umano, l’incredibile potenza culturale e la modernità di quell’antichissimo mondo.
Operando con la “Fondazione Giancarlo Ligabue” – per rendere visibili a tutti, centinaia di quei sigilli e tavolette della Collezione – sono ritornato col pensiero alle prime volte nelle quali mi erano apparse quelle impronte sull’argilla e sulla pietra: ho così visto con altri occhi i messaggi che questi oggetti continuano a portare con loro. Quelle voci ancora racchiuse sono appartenute a genti e popolazioni che occorre definire come “nostre contemporanee”,
perché riproducono storie, simboli e gesti di un vivere quotidiano che ancora pratichiamo ed elaboriamo: elenchi vari che sancivano il primo diritto di proprietà, indicazioni sanitarie contro i dolori delle partorienti, omaggi ed intercessioni alle divinità, contratti di acquisto di animali, o di strumenti per costruzioni.
La Mesopotamia (quasi in parallelo con l’Egitto e – a grande distanza geografica e in parte storica – con la Cina e con la Meso e Sud America) ha inserito nell’avventura umana la nascita della scrittura. Scrivere o non scrivere non è stato un prodotto del caso.
Mio padre mi ha sempre descritto così quel fenomeno: “Fu l’evoluzione culturale che cominciò, allora, a scandire i ritmi dell’evoluzione genetica. Due milioni di anni prima, l’homo habilis
aveva estrapolato dalla natura strumenti estranei alla propria struttura, i “chopper”, per essere in grado di fronteggiare prede e predatori. Poi una scoperta tecnologica eccezionale, l’agricoltura ed i processi indotti che questa comportava: sedentarietà, urbanesimo, riassetto dei rapporti socio-economici, sviluppo demografico, autorità centralizzata”.
Oggi comprendo appieno quanto questa rivoluzione umana, quella della parola scritta – oltre a essere figlia di un processo intellettuale, scientifico e di un bisogno – è stata anche scelta di identità e cultura che ha prodotto ordine, civiltà e certezza del diritto, combinando in modo visibile e permanente i rapporti di una società.

In quel mondo e in quei tempi si “inventano” i numeri e i simboli che porteranno all’alfabeto.
Sempre usando parole di Giancarlo: “quel tempo, dove i pensieri diventavano disegni, poi segni e simboli fu la grande via di Damasco dell’umanità”.
C’è ancora stupore di fronte a questi oggetti, costruiti oltre quattromila anni fa, che continuano a lanciare messaggi di singolare, esaltante bellezza.
Come “Fondazione Giancarlo Ligabue” abbiamo voluto ridare vita a questa enorme biblioteca mesopotamica, rimasta chiusa per oltre 40 secoli. Non ho avuto così alcun dubbio su chi potesse essere la guida tra quegli scaffali e l’interprete di quei labirintici percorsi di studio compiuti su libri, oggetti, racconti, viaggi, colloqui, ripercorrendo ed arricchendo un sentiero già intrapreso trent’anni fa con il libro “Prima dell’alfabeto”.
Frederick Mario Fales, curatore della mostra e autore di questo catalogo – che ringrazio per la paziente dedizione, l’arguto e sagace discutere e le profonde prospettive scientifiche – ha
rinnovato l’incontro con molti oggetti che lui già conosceva ed, integrandoli con altri, oggi esposti, ci regala, con la collaborazione di Roswitha Del Fabbro, una nuova e preziosa testimonianza
del mondo mesopotamico.
Lo ringrazio ancora di più dal punto di vista umano, per aver dato compimento e realizzazione ad un percorso culturale, iniziato decenni fa con mio padre Giancarlo, che oggi promuovo e
condivido. Una personale continuità nella passione ed approfondimento dell’archetipo.
Nello spirito dei primi “lettori” ottocenteschi di quei misteriosi linguaggi rimasti sepolti per millenni, questa mostra – collocata nella Biblioteca di Palazzo Loredan, sede dell’Istituto Veneto
delle Scienze, che è uno dei fulcri vitali di sapienza e cultura della nostra città – è una nuova sfida culturale anche per Venezia, città che cerca di capire ogni volta di più quel suo speciale ruolo di interprete della modernità. Città che non può che essere “Capitale di Cultura”.

Questa esposizione è anche felice esempio di cooperazione con diversi Istituti scientifici italiani ed esteri. Tra tutti vorrei ricordare i Musei Reali di Torino con la direttrice Enrica Pagella per l’importantissimo prestito del rilievo del Re Sargon II ed il museo Archeologico di Venezia e la sua direttrice Annamaria Larese per la concessione dei prestiti di alcuni degli oggetti che Austen Henry Layard ha portato nel XIX secolo a Venezia da Ninive, città da lui scoperta.
Questa occasione è anche quella di ripresentare alla memoria della città la figura di un personaggio che in patria, dopo che apportò al British Museum preziosissimi reperti assiri, venne
quasi dimenticato.
“Una “damnatio memoriae” – come ha ricordato Frederick Mario Fales – di notevole profondità e durata, un anatema che si estese anche a collaboratori e amici. Solamente nel 1963 in Gran Bretagna furono dissipati i dubbi sui meriti storici del personaggio”.
Un ventennio dopo anche Venezia partecipò alla fase di recupero storiografico con importanti studi sul ‘Layard tra Venezia e Oriente’. Quell’operazione fu così commentata, sempre da Fales: “Con il suo lascito Layard inaugurava in ambito veneziano una tradizione e un gusto, quella del collezionismo di reperti
dell’Oriente pregreco. Che tale gusto ebbe un certo sviluppo nella città lagunare successivamente a questa prima, illustre raccolta, è forse noto a pochi ma è nondimeno relativamente ben documentato per la pazienza e il piacere del ricercatore. (…) Sarà bene non perdere di vista l’esistenza di collezioni private radunate e custodite secondo canoni di sapienza e gusto che poco o nulla sono mutati rispetto a quelli di Austen Henry Layard”.
Infine, ma solo per riservare una personale dedica, voglio rivolgere un pensiero di riconoscenza e di apprezzamento a Massimo Casarin ed Adriano Favaro, per la grande dedizione
con cui vivono la crescita dei progetti culturali della Fondazione, e la passione con cui omaggiano memoria e ricordo di un amico.

Scarica il comunicato stampa della mostra PRIMA DELL’ALFABETO Viaggio in Mesopotamia all’origine della scrittura – Venezia