George Michael è morto. So che il mio cordoglio arriva in ritardo e si aggiunge solo agli innumerevoli che, in questi primi due giorni dopo l’accaduto, attraverso i social, i giornali e la Tv hanno avuto modo di esternarsi, ma d’acchito non ho trovato le parole adatte. Mi sono sentita come se qualsiasi frase o periodo riportato sul foglio (si, lo confesso, sto ricopiando ora tutto sul pc, ma i pensieri li ho espressi con la mia penna ed il mio notes proprio come quand’ero ragazza), non desse pieno credito alla pena che ho sentito alla notizia della morte di George Michael. Ma non potevo esimermi dal dire addio a quello che è stato un mito della mia giovinezza. Per alcuni George Michael è deceduto per colpa di un infarto. Dopo ricerche più accurate per colpa di una overdose. Domani forse, come ogni volta che si mette in moto la macchina mediatica, per cause ancora da appurare. Resta il fatto che ci ha lasciati il giorno di Natale e nulla cambia questa triste realtà.
Un uomo di 53 anni dovrebbe essere nel pieno delle sue capacità. Soprattutto un musicista, come nel suo caso, avrebbe avuto modo ancora per molto tempo, di poter regalare a tutti noi melodie indimenticabili. Ora tutto è sbiadito nei contorni. Ci si augura che non abbia sofferto e che, essendo solo, non abbia avuto quella paura che annienta ogni ragione, anche solo per poco. Le sue canzoni fanno da sottofondo alla cronaca dei telegiornali che incessantemente parlano di lui, cosa che non apprezzo molto, in quanto non sembra lo onori ma semplicemente si sfrutti la sua immagine per fare informazione, come spesso il giornalismo fa con le notizie d’interesse che fanno audience. Io preferisco le immagini di quei fans che, in silenzio appunto, hanno portato un fiore davanti alla sua casa per un addio commosso e partecipato. Avevo 14 anni quando per la prima volta sentii parlare di lui. Erano i tempi di “Club Tropicana” e “Wake me up before you go-go”. Con questi brani gli WHAM!, il cui nome, ricorda la storia, fu preso in prestito dai fumetti, balzarono in cima alle classifiche come nuovo fenomeno musicale del pop. Il gruppo composto da Andrew Ridgeley e George Michael si affacciò nel panorama internazionale con grinta e decisione per sbaragliare la concorrenza di altre band.
Ragazzi erano gli anni ’80. I mitici. Vi ricordate, c’erano i paninari, i primi push-up, le Timberland….. I fanciulli della odierna generazione, che si scatenano in discoteca nelle serate revival, non possono capire fino in fondo la magia che si accende negli occhi di noi quarantenni all’ascolto di quei ritornelli, ai quali sono legati pezzi della nostra ingenua gioventù d’allora. Le ragazze litigavano per chi tra gli Spandau Ballet e i Duran Duran fosse il complesso migliore. Io adoravo loro, gli WHAM!. In realtà George, che con quei capelli biondi ed il bianchissimo sorriso, era irresistibile. Le pareti della mia camera, come ogni teen-ager che si rispetti, erano tappezzate dei suoi poster e, quando Deejay Television, programma culto di quegli anni, passava i frame dei migliori video musicali (all’epoca lo presentava un giovanissimo Gerry Scotti) io, estasiata, ero lì a sospirare. Credo che per anni “Careless Whisper” sia stata la colonna sonora della mia esistenza. Mi bastava, viaggiando in macchina, imbattermi in un panorama di notte con le lucine in lontananza simili ad un presepe, per riportare la mente al breve filmato che accompagna quella meravigliosa canzone. I miei compagni di classe mi hanno preso in giro alla grande per questa mia passione smisurata. Li ho lasciati fare. Tanto il mio amore era qualcosa di così puro e trascendentale da non essere macchiato dalla becera quotidianità. Quando ancora oggi risento “Last Christmas” o “Faith”, penso che grazie al mio idolo George Michael, ho cominciato ad acquisire qualche nozione d’inglese. Con gli anni, quando dopo il concerto di Wembley, gli WHAM! si sciolsero, di Andrew si è saputo sempre meno, ma George, grazie a collaborazioni importanti come quella con Aretha Franklin e quella con sir Elton John, ha portato avanti un progetto solista che l’ha fatto approdare ad album qualitativamente eccezionali. Sonorità ricercate, testi accurati, esecuzioni di primo piano. Si è lasciato alle spalle pian piano motivi commerciali ed ha raggiunto il firmamento di star internazionale, con pezzi artisticamente di pregio. Negli anni ’90 ha voluto fare coming-out e dichiarare, anche in modo plateale, la propria omosessualità. Che colpo ragazzi! Io adoro i gay, sia chiaro. Ma George, l’oggetto dei miei desideri di bambina? Scoprire che non fosse etero è stata una bella batosta. Ma si sa. L’amore, soprattutto quello idilliaco, quello che non ha mai realizzazione, ma che resta perfetto proprio perché fonte di ispirazione, ha retto il colpo. George è George. Uno che in barba al mondo e ai pregiudizi ha scelto di vivere la propria vita rasentando lo scandalo, laddove non era ancora così facile poter vivere liberamente la propria diversità sessuale.
Ieri, il giorno dopo la sua dipartita, mi ha chiamata mia cugina: abbiamo ricordato quell’estate del 1985 trascorsa insieme, quando ancora c’erano gli LP di vinile ed ascoltavamo lui nei pomeriggi assolati. La mia adolescenza è passata da un pezzo, ne sono consapevole, ma è complicato crescere e, seppur lo devi fare tuo malgrado, c’è una parte in ognuno che rimane legata ad un passato remoto difficile da archiviare. Questo vuoto che sento è giustificato da un inventariare pezzi di reminiscenze per sempre nel cosiddetto armadio della memoria. I veri fans sono così. Amareggiati e fieri, affrontano l’assenza con il ricordo incessante e gli occhi rivolti al cielo.
E’ successo quest’anno a molti quando è andato via David Bowie o Prince. O l’anno scorso quando il grande Pino Daniele c’ha lasciati. Dai bimba, è ora di approdare alla realtà degli adulti.
Lassù un nuovo angelo ha guadagnato un nuovo paio d’ali per imparare a volare. Ciao George, mio dolcissimo amico.
di Daniela D’Avino